Recensione di Federico Colocresi (23 giugno 2011)
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Scrivi Pineda e leggi Moltheni verrebbe da dire. Vero, ma solo in parte.
È vero perché gli interpreti sono i medesimi, seppur ben mescolati. Umberto Gialdini, anima della band che fu, si accomoda dietro le pelli, suo antico amore. Marco Marzo Maracas, mente del progetto e vero appassionato di prog (vedesi i suoi Accordo dei Contrari), si dedica alla chitarra mentre Floriano Bocchino ci allieta con il suo piano rigorosamente Rhodes, e non è un dettaglio. Qui infatti iniziano le di!erenze con i Moltheni, in quanto l’atmosfera che si respira grazie ai novelli Pineda è una gustosa miscela di psycho-prog anni settanta, con tanta fusion e un po’ lounge nel mezzo. Tortoise, Emerson Lake and Palmer, la passione comune per Doors e Jefferson Airplane. Riferimenti scontati ma quasi obbligatori per una corretta esegesi del progetto Pineda. Giardini, che non ha mai nascosto il suo malcontento per il moderno evolversi della società e la contemporanea disaffezione tutta italica verso la musica di qualità, si avventura in un prospetto ambizioso.
Raffinato sì ma rischioso. Per questo (o forse anche per questo) i nostri hanno deciso che la musica dei Pineda è, e resterà, rigorosamente strumentale. Ma il messaggio dei Pineda perviene comunque, forte e chiaro, sotto forma di elegantissime composizioni.
Sei tracce, quaranta minuti scarsi. Le intenzioni sono ottime, come detto, e il risultato è apprezzabile, mai eccessivo e sempre garbato. Su tutte spicca la bellissima “Domino”, con i suoi tanti volti, retta da incantevoli melodie di piano e marcata da un alone misterioso assai conturbante.
Manifeste reminiscenze del passato nella dura “Touch me”, ove si odono echi dei King Crimson di Red, e nella dilatata “If god exist”, tipico crescendo atmosferico di Pinkfloydiana memoria. Il resto è un omogeneo e delicato impasto delle influenze citate, eppure udendo attentamente si scorge, neppure troppo lontana, la malinconica anima dei Moltheni, saggiamente riadornata. Tutto torna.
“Pineda”, disco omonimo, è registrato da Antonio Cupertino alle ormai celeberrime Officine Meccaniche di Mauro Pagani per la Deambula Records. Giardini e soci (o forse dovremmo dire Marco Marzo Maracas e soci) ci regalano (o meglio si regalano) un disco pregevole, forse non innovativo né sbalorditivo, ma certamente godibile, con una sfavillante vena al contempo retrò e moderna, antica ma familiare. L’opera prima del trio bolognese fluisce bene, finanche eccessivamente pretenziosa in alcuni passaggi, ma in fondo i nostri sono sempre stati (un po’) deliziosamente snob e la classe, di sicuro, non gli fa difetto. Promossi a pieni voti ma, per ora senza lode. Per la lode li aspettiamo on stage? Le premesse ci sono tutte.