Recensione di Angela Denise Laudato (15 gennaio 2024)
Leggi la recensione originale su IMPATTO SONORO
Dopo oltre tre anni di distanza dal suo ultimo lavoro discografico Umberto Maria Giardini (ex Moltheni) torna con un nuovo album dall’enigmatico titolo “Mondo e Antimondo”. Questo lasso di tempo non ha minimamente scalfito la sua penna e le sue melodie, al contrario ci restituisce un Giardini ancora più ispirato nelle composizioni liriche, attento nel tratteggiare quelle atmosfere che lo hanno reso indimenticabile nei panni di Moltheni. “Mondo e Antimondo” è un viaggio poetico e malinconico verso gli abissi più profondi dei sentimenti umani. Il cantautore marchigiano racconta l’uomo in tutte le sue debolezze e lo fa con un colpo di pistola, un pugno in faccia. E non c’è lieto fine nella potenza evocativa delle sue rime. I suoni sono contemporanei e vivi, spaziano dal rock per passare al pop e poi alla psichedelia. I brani sono intensi, poetici e liricamente complessi. I temi sono quelli consueti: l’amore tormentato, il senso di perdita, la paura del distacco, la sacralità del quotidiano e dei luoghi, il desiderio portato all’estremo. La voce di Umberto Maria Giardini è unica nel suo genere: limpida e colma di una grazia disarmante. Umberto non delude mai. Già dal primo ascolto si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad uno dei suoi migliori lavori. Stavolta, però, ad aiutarlo ci sono anche altre voci e altre penne: Cristiano Godano, il Maestro Floriano Bocchino e Marco Marzo Maracas.
“Mondo e Antimondo” è composto da dieci brani. Si inizia con Re, brano scelto come singolo per anticipare il disco. Come una sorta di mantra, che ricorda un po’ lo stile di Giovanni Lindo Ferretti, la voce di Umberto ripete “Corri forte vanga / Taglia la legna / Scendi a valle / prega nel pavimento freddo”, in una visione mistica che racconta il passare della vita fatta di lavoro, passioni, religione. Tutto finisce inevitabilmente, anche un impero per mano dei Barbari che avanzano all’orizzonte. Si continua con Miracoli ad alta quota, riflessioni su amore e inquietudini: “Lasciami qui ad alta quota / Dentro o fuori al crepaccio / Al ghiaccio / Leggimi libri evita il peggio per me / Nella forma ideale normale / Come te / Miracoli quelli che fa l’amore / Come attori in un dramma”. La chitarra tesse trame labirintiche e la batteria scandisce il tempo; gli scenari sfociano nei colori degli occhi del protagonista: “lasciami qui / coi miei occhi al cobalto / Vittima bionda degli anni del malto”.
Un giro elettrico di chitarra dai toni hard rock si apre col brano Andromeda, scritta dal chitarrista Marco Marzo Maracas, che lascia spazio ugualmente ad atmosfere cupe. Per oltre sette minuti questa traccia sembra vivere vita propria. Il sentimento d’amore qui lascia il posto alla paura ancestrale di perdere qualcuno tanto desiderato: “amore mio, splendore mio / marea mia / difesa mia” – canta Giardini, spietato come uno schiaffo in faccia. Chitarra e batteria riescono ad evocare infiniti paesaggi, quasi a proteggere i due amanti dalle trame degli avversi fati: “dentro a un cerchio io e te / definiamo il mondo / cerbottana vita mia / rilanciami / proteggimi”.
La Notte è una fuga malinconica raccontata al pianoforte. La voce di Giardini si schiude in un sussurro come raccontasse un segreto: “La verità ha la mia calligrafia / In letargo addormentata con la tua / La verità ha la mia calligrafia / Ricopiata in bella copia / Uguale alla tua / Alla tua”. Subito si sente la voce di Cristiano Godano in Le tue mani, ballata di dita intrecciate senza tempo. Il brano sembra tracciare la fine della prima parte dell’album. Le sonorità acquistano le sembianze di una marcia, che sembra il preludio all’Antimondo.
Versus minorenne è un brano esplosivo dal titolo curioso, con qualche eco alla Afterhours e del rock d’autore: “Dimmi che il domani è già qui / Complice di noi / Debole scintilla che ardi poco / Diventa fuoco / E non mi dire mai di no”. Nei Giardini Tuoi, ballad dolceamara, forse il brano “più Moltheni” dell’intero disco: “Di come ti guardavo / Mentre ridevi di noi, di me / Di come ti guardavo mentre correvi via / Da noi, da me/ Odio l’acqua fredda nelle mani / Vedrai che / Che da domani non mi ami più”, canta Giardini e la sua voce si appoggia sulle vocali, vibra e lascia dissolvere la melodia di un addio, a metà strada tra il sogno e la realtà.
Le note del pianoforte accompagnano Muro contro Muro, scritto con il pianista Floriano Bocchino: una sofferta storia d’amore agli sgoccioli, accompagnati dagli archi che rendono il brano ancora più intenso e drammatico: “Così ogni volta che mi fermo e ti guardo / Rubo ore al tempo”. L’architettura gotica degli anni, il dolore del ricordo, “le tue mani dolci e inconfondibili / cugine di un peccato femminile”.
Forse è qui che finisce l’Antimondo? I toni malinconici proseguono in Figlia Del Corteo, brano lento e dolcissimo, quasi irreale. Archi e testo pensoso: “Io minerale tuo, dovrò / Affogare in un bicchiere d’acqua”. Chiude il disco la title track, Mondo e Antimondo, scritto insieme a Michele Zanni, racconta la “favola dell’uomo” appoggiandosi su suggestioni psichedeliche: “Nell’ipotesi finale / Umanità finita male / Mani e occhi maledetti / Come coccodrilli a denti stretti”. Disincanto, delusione e tristezza. La voce di Giardini diventa fiume in piena per poi oscurarsi sul finale: “io per te / come polvere ovunque / come neve pulita nella cima del monte / Ma io / per te / diverrò perpendicolare / nella mia disciplina nella povertà nella mia morale”.
“Mondo e Antimondo” conferma Umberto Maria Giardini come uno dei maggiori autori del rock italiano. Un disco disperatamente disarmante e struggente. Ad ogni ascolto ti senti sfaldare, come uno specchio rotto in mille pezzi. Ed è lì che inizia la catarsi, la personale ascesa al Monte Ventoso.